Meglio tardi che mai, anche il sindaco di calusco, roberto colleoni, dice la sua sulla cosiddetta giungla pannelli solari ed energie rinnovabili. - È da tempo che imperversa una controversia tra Amministrazioni comunali, Provincie, Regioni e ministero sul problema degli impianti fotovoltaici a terra, in quanto, senza tener conto dei pareri delle Amministrazioni locali e delle oggettive controindicazioni di certe singole ubicazioni dei suddetti impianti, la normativa vigente - nazionale - consente e addirittura incentiva privati e non a procedere con tali installazioni in forza della equivoca e fuorviante formula della «pubblica utilità, urgenza e indifferibilità».
Il Comune di Calusco d'Adda è uno di quelli sul cui territorio è stato previsto un impianto fotovoltaico a terra, nel bel mezzo della valle dell'Adda, in un contesto di Parchi regionali e Plis, tra il secolare convento di Baccanello e nelle immediate adiacenze di una storica cascina. Chiaramente, abbiamo cercato in tutti i modi possibili di frenare un'operazione così spregiudicata, anche se le cartucce a disposizione dei Comuni sono scarse, anzi a salve.
Ci fa piacere che la Provincia (vedi articolo su L'Eco di Bergamo del 31 agosto dal titolo «Stop alla giungla di pannelli solari. Agricoltura a rischio») abbia avvertito il pericolo di una corsa al fotovoltaico selvaggio e auspichi una rapida definizione del vuoto normativo attuale. Noi, dal canto nostro, avevamo già scritto nel maggio scorso alla Provincia, alla Regione e al ministero dell'Ambiente proprio per evidenziare tali rischi. Ci ha tuttavia colto di sorpresa l'articolo apparso sullo stesso quotidiano il giorno dopo, 1 settembre, dal titolo «Campi minacciati da industrie e negozi, non dal fotovoltaico» in cui si riportano i pareri - sorprendenti - di Confagricoltura, per voce del suo presidente provinciale Renato Giavazzi. Già l'approccio usato di generalizzare, facendo di ogni erba un fascio, sulle «maniche larghe dei Comuni nel dare via libera a nuovi insediamenti industriali o commerciali» non ci ha ben disposti verso un sereno confronto sulla questione. Vi sono strumenti urbanistici come il Prg o il Pgt che definiscono in modo chiaro e inequivocabile la destinazione delle aree territoriali e la stragrande maggioranza dei Comuni, tra i quali il nostro, si attiene a tali criteri e quindi l'accusa di manica larga la respingiamo al mittente.
Il ragionamento che più ci ha sorpreso riguarda due punti. Il primo, che a mio avviso denota grande ingenuità, riguarda il suggerimento di «collocare i pannelli ad un'altezza dal suolo compatibile con la possibilità di effettuare certe coltivazioni nelle aree sottostanti e circostanti gli impianti». Forse che il presidente Giavazzi pensa che un operatore privato acquisti un terreno da adibire ad impianto fotovoltaico - aggiungiamo - per puro spirito speculativo, e poi si preoccupi di rendere possibile una qualsiasi coltivazione? Non è il suo mestiere. Di conseguenza un terreno agricolo, a mio avviso, diviene a tutti gli effetti «industriale» senza neppure pagare uno straccio di onere per cambio di destinazione.
Il secondo punto riguarda invece l'atteggiamento espresso in quanto rappresentante di categoria. Ci riesce infatti molto difficile comprendere come «l'impegno del settore agricolo nel campo delle energie rinnovabili, lungi dal rappresentare una forma di abbandono della tradizionale forma produttiva di derrate alimentari, costituisce al contrario un'importante evoluzione del ruolo della moderna agricoltura a difesa dell'ambiente e di un modello di sviluppo che possa dirsi veramente sostenibile» e ancora «se la presenza di aziende agricole sul territorio è auspicata da tutti per il mantenimento delle aree rurali, non possiamo pretendere che le nostre aziende rinuncino a sondare nuovi campi di impegno e nuovi comparti produttivi».
Sono belle e illuminate parole quelle del presidente Giavazzi, ma, tradotte in linguaggio corrente, sembrerebbero affermare che, se la produzione agricola, faticosa e impegnativa, non dà più i profitti attesi, la dismetto e vendo o affitto i miei campi a chi, lucrando, realizza impianti fotovoltaici. Così ci si guadagna in due.
Il risultato finale è che gli agricoltori non fanno più quel mestiere (e allora cosa c'entra Confagricoltura?) e i terreni agricoli diventano qualcos'altro che, in modo strisciante, finito il boom del fotovoltaico, resteranno aree a destinazione industriale con conseguente impennata del loro valore di mercato e i Comuni sul cui territorio si trovano queste aree avranno perso la connotazione agricola, avranno guadagnato uno scempio ambientale e non avranno neppure beneficiato degli oneri per la trasformazione.
Per concludere, ci sembra che il presidente Giavazzi, mentre si dimostra molto severo nei confronti dei sindaci che, a parer suo, sono di manica larga e speculano sul territorio, è invece molto tenero e comprensivo verso i coltivatori che fanno altrettanto «sondando nuovi campi di impegno e nuovi comparti produttivi».
Porthos
Il Comune di Calusco d'Adda è uno di quelli sul cui territorio è stato previsto un impianto fotovoltaico a terra, nel bel mezzo della valle dell'Adda, in un contesto di Parchi regionali e Plis, tra il secolare convento di Baccanello e nelle immediate adiacenze di una storica cascina. Chiaramente, abbiamo cercato in tutti i modi possibili di frenare un'operazione così spregiudicata, anche se le cartucce a disposizione dei Comuni sono scarse, anzi a salve.
Ci fa piacere che la Provincia (vedi articolo su L'Eco di Bergamo del 31 agosto dal titolo «Stop alla giungla di pannelli solari. Agricoltura a rischio») abbia avvertito il pericolo di una corsa al fotovoltaico selvaggio e auspichi una rapida definizione del vuoto normativo attuale. Noi, dal canto nostro, avevamo già scritto nel maggio scorso alla Provincia, alla Regione e al ministero dell'Ambiente proprio per evidenziare tali rischi. Ci ha tuttavia colto di sorpresa l'articolo apparso sullo stesso quotidiano il giorno dopo, 1 settembre, dal titolo «Campi minacciati da industrie e negozi, non dal fotovoltaico» in cui si riportano i pareri - sorprendenti - di Confagricoltura, per voce del suo presidente provinciale Renato Giavazzi. Già l'approccio usato di generalizzare, facendo di ogni erba un fascio, sulle «maniche larghe dei Comuni nel dare via libera a nuovi insediamenti industriali o commerciali» non ci ha ben disposti verso un sereno confronto sulla questione. Vi sono strumenti urbanistici come il Prg o il Pgt che definiscono in modo chiaro e inequivocabile la destinazione delle aree territoriali e la stragrande maggioranza dei Comuni, tra i quali il nostro, si attiene a tali criteri e quindi l'accusa di manica larga la respingiamo al mittente.
Il ragionamento che più ci ha sorpreso riguarda due punti. Il primo, che a mio avviso denota grande ingenuità, riguarda il suggerimento di «collocare i pannelli ad un'altezza dal suolo compatibile con la possibilità di effettuare certe coltivazioni nelle aree sottostanti e circostanti gli impianti». Forse che il presidente Giavazzi pensa che un operatore privato acquisti un terreno da adibire ad impianto fotovoltaico - aggiungiamo - per puro spirito speculativo, e poi si preoccupi di rendere possibile una qualsiasi coltivazione? Non è il suo mestiere. Di conseguenza un terreno agricolo, a mio avviso, diviene a tutti gli effetti «industriale» senza neppure pagare uno straccio di onere per cambio di destinazione.
Il secondo punto riguarda invece l'atteggiamento espresso in quanto rappresentante di categoria. Ci riesce infatti molto difficile comprendere come «l'impegno del settore agricolo nel campo delle energie rinnovabili, lungi dal rappresentare una forma di abbandono della tradizionale forma produttiva di derrate alimentari, costituisce al contrario un'importante evoluzione del ruolo della moderna agricoltura a difesa dell'ambiente e di un modello di sviluppo che possa dirsi veramente sostenibile» e ancora «se la presenza di aziende agricole sul territorio è auspicata da tutti per il mantenimento delle aree rurali, non possiamo pretendere che le nostre aziende rinuncino a sondare nuovi campi di impegno e nuovi comparti produttivi».
Sono belle e illuminate parole quelle del presidente Giavazzi, ma, tradotte in linguaggio corrente, sembrerebbero affermare che, se la produzione agricola, faticosa e impegnativa, non dà più i profitti attesi, la dismetto e vendo o affitto i miei campi a chi, lucrando, realizza impianti fotovoltaici. Così ci si guadagna in due.
Il risultato finale è che gli agricoltori non fanno più quel mestiere (e allora cosa c'entra Confagricoltura?) e i terreni agricoli diventano qualcos'altro che, in modo strisciante, finito il boom del fotovoltaico, resteranno aree a destinazione industriale con conseguente impennata del loro valore di mercato e i Comuni sul cui territorio si trovano queste aree avranno perso la connotazione agricola, avranno guadagnato uno scempio ambientale e non avranno neppure beneficiato degli oneri per la trasformazione.
Per concludere, ci sembra che il presidente Giavazzi, mentre si dimostra molto severo nei confronti dei sindaci che, a parer suo, sono di manica larga e speculano sul territorio, è invece molto tenero e comprensivo verso i coltivatori che fanno altrettanto «sondando nuovi campi di impegno e nuovi comparti produttivi».
Porthos
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